“Fermati qui,” mi disse “non partire più”.
Poi lui lasciò la campagna per tornare a vivere in città. Io comiciai presto a stare più a casa sua che nella mia. occupava gli ultimi due piani di un vecchio stabile del borgo antico, un vecchio granaio ai piedi della Certosa. Nell’appartamento al piano di sotto abitava il fratello. Al piano terra c’era il laboratorio di artigiani, dove tagliavano e lucidavano il ferra. La casa era a ridosso della collina. Affacciata sul profilo della città. Inquadrati nelle finestre, ancora alberi, filari di cipressi, siepi, e prati morbidi di fiori. Per andare da lui laciavo il mio piccolo appartamento, acquattato anche quello ad un ultimo piano. Evidentemente eravano tutti e due ammalati di tetti. E poi laggiù in basso, per tutti e due da qualche parte scorreva tranquillo il fiume. Dà una certa serenità sapere che nelle vicinanza c’è dell’acqua che scorre. Ne avverti la presenza anche quando non puoi vederla. Accarezza la mente. Madre premurosa. Come quasi cercando di consolarti dall’assedio che tutt’intorno la città sempre solleva. Cominciai a portare nella sua casa un pò delle mie cose. Poche alla volta. Prima sol oqualche traccia. Poi il necessario per passare la notte. Poi un vestito di ricambio. Succede sempre così, no? Un giorno vi abbandonai un quaderno di appunti, delle poesie. Quindi arrivai con alcuni libri. “Leggi ancora le favole?” mi chiese. Gli sorridevano gli occhi, ricordo. Come un bambino, sorpreso da inaspettata carezza. “Qualcuna a cui mi sono affezionata” risposi mentre stavo poggiando sulla prima scansia della libreria la Storia di Pepito. Libro della mia infanzia. Con la copertina di cartone rigido dipinto di grandi foglie e fiori gialli rossi e azzurri e al centro il volto paffuto di un bambino daigrandi occhi profondo e neri. “Ti somiglia” gli dissi. Lui rise. … “Mi piace ascoltare le favole!” disse con aria d’incanto. Che poi ruppe cambiandi registro. “Legge ancora le favole, ragazzi… ne sentiremo di belle” e si chinò a carezzare i gatti, che sempre gli stavano fra i piedi. I gatti. Erano gli altri ospiti dell’appartamento. Devo correggermi. Ospiti non è la parola giusta. Erano piuttosto una fetta dell’anima della casa. Un pezzo di famiglia. Lui giocava con loro. Li nutriva, li curava. Li amava molto. Anch’io amavo e amo i gatti più di qualsiasi altro animale. Forse per quel loro stile così armonioso, danzante di muoversi. Come in qualche modo lo era anche lui. Che sapeva muoversi sempre con garbo, fermandosi a tratti in pose da ballerino. Gesti d’istantanee inconsapevoli che io, che ballerina ero stato, sapevo cogliere. “Le favole, dunque…” continuò a sorridere facendo scorrere le dita avanti e indietro affondate nei folti peli del dorso di Pavlova. Pavolva, sì, la gatta. Più familiarmente la chiamavamo Micia. L’avevo trovata una sera sotto il palo al quale avevo attaccato la bicicletta. Aveva emesso uno strano miagolio, come per chiedermi come mai avessi impiegato così tanto tempo per andare a prenderla. E’ poi cresciuta con noi. …. Le dita, dicevo. Mi piaceva tanto quel suo certo muovere leggero le mani. Quando parlava, anche quando taceva, come se avesse sempre il fraseggio nel movimento delle dita. Matti come gatti, scherzava Marco quando ci veniva a trovare. Sì. Matti e allora forse persino felici, se posso usare una parola che ancora mi fa tremare.
“Angela, angelo, angelo mio” , pp.18/19