Gabin Dabiré, in concerto il primo agosto. “Notte Africana”, presso la Darsena Azzurra di Fiumaretta di Ameglia (Genova).
“Il nuovo amico veniva da un paese dell’Africa occidentale. Alle percussioni era un mago. Ma non solo. Un poeta, direi.Continua a suonare. Ho sempre i suoi dischi. Anche qualche vecchia cassetta. Questa è una delle prime registrazioni. Il nastro è molto rovinato. Ma si può provare ad ascoltarlo. Potrebbe rompersi. Speriamo non succeda. Ecco… Il suono è opaco. In questo punto diventa troppo flebile. Si allontana. Peccato, il nastro è davvero troppo vecchio. Ma ancora si percepisce il pulsare della voce del suo paese. Immensa. Profonda. Magica. In questo punto… un timbro arcano… dà quasi una sensazione d’umore caldo… Si avverte ancora? Sì. E’ odore di terra. Respiro d’animali e di dèi d’acqua. Se chiudo gli occhi li vedo. Animali e dèi. Questo suono. E’ un tamburo parlante. Dicono abbia poteri magici. Dum… dum… dummm... Mi piaceva incontrare quel giovane musicista nero. Mi dava gioia quando arrivava, e sapevo che ne dava anche a lui. Alto e composto, avanzando con lenti e armonici movimenti. Con i suoi fantastici, strani strumenti fatti di legni, zucche, tele di ragno e budella essiccate. Lo immaginavo discendente da una stirpe di nobili guerrieri. Poggiava sulle cose e sulle persone i suoi grandi occhi neri. Spostandoli appena. Dolci e umidi, come sono gli occhi di tanta gente del sud un pò più a sud del mondo. Pieni di saggezza e di dolore incommensurabili. Come se serbassero il segreto di una memoria mai interrotta, dall’inizio del tempo. Mi sembrava, guardandoli, di frugare dentro l’anima dell’intera razza umana. Mi hanno sempre messo soggezione, quegli occhi. Ci raccontava spesso dei suoi viaggi. Ne aveva fatti tanti e anche per questo, credo, lo sentivano simile a noi. Ma più e meglio di noi, con i gesti e il parlare, anche se non affollati, componeva un’infinità di immagini e dei suoni e dei colori dei paesi che aveva attraversato. Suoni e colori della sua terra più che di ogni altro paese. Cuore d’Africa. Che sapeva battere all’unisono con quello di lui, che negli occhi di Gabin ritrovava, ne sono certa, un pezzo della sua anima… Aveva una voce morbida, il nostro amico. Entrava, si sedeva, e narrava delle terre che aveva visto. “Racconta, Gabin, racconta!” lo invitavamo. Avremmo trascorso notti intere ad ascoltarlo. Non so esattamente cosa più mi piacesse in quel giovane africano. Forse la lenta e garbata gestualità, in qualche modo molto simile a quella di lui. le sue mani, come quelle di lui forti e leggere. Non ci ha mai abbandonati, neanche quando si è trasferito in un’altra città, e anche dopo che lui è morto è venuto ogni anno a trovarmi. Seduto proprio su questa sedia davanti a me, per parlare educatamente delle cose della vita, del passato, del presente, dei rispettivi genitori che pur non conosciuti sono diventati cosa familiare. Come si fa fra gente ammodo. Sono sempre stata felice di rivederlo e sentire la musica della sua voce, riascoltare il canto dei suoi tamburi. Dum… dum… dummm… Finalmente aria nuova, dunque. Contaminazioni. Per un bagno di vita che lui tentò. Ecco, metto questo brano. “Musengu”. Anche alui piaceva molto. Le percussioni sul fondo. Appena si avvertono. Ora, a poco a poco crescono d’intensità e densità. S’avvicinano, con timbri di pioggia, leggeri e gonfi. Il canto che s’alza. Sembra voce di tribù lontana. Che chiama. Che chiama. I tamburi adesso battono il ritmo di folle danzanti. In cerchio. Mentre qui avanza un nuovo canto, che sa d’acqua. Un richiamo, fortissimo, dal suolo d’oltremare. So di antiche leggende che narrano di ritmi che sanno tessere carne intorno alle ossa, e far rinascere corpi e richiamare l’anima che ne era fuggita via. Se questa magia il mio cuore ha atteso in segreto, non poteva che aspettarla dall’amico africano. Potenti viscere della terra. L’Africa. Che chiamava e richiamava in lui i suoni degli anni adolescenti che vi aveva trascorso, felice. Che pure aveva il suono del dolore della perdita e della morte che lì lo aveva segnato. I bambini d’Africa. So che crescono imparando i llinguaggio musicale di pari passo con quello parlato. Così, credo, sia successo per lui. Che, indifferentemente potendo parlare con le parole o con le note, subito avrebbe scelto la musica. Corni africani. Mi sembra di leggerli, a volte, in uno dei suoi ultimi disegni. Corni gonfi dei soffi d’aria che, per lui, vi erano rimasti imprigionati”
da “Angela, angelo, angelo mio…” (pp 51-53)