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    Lessico del razzismo democratico

    parole....“Non ha ottenuto l’unanimità la mozione per istituire una commissione straordinaria contro odio, razzismo e antisemitismo, proposta da Liliana Segre. Il centrodestra si è astenuto. E quando i senatori si sono alzati in piedi per omaggiare con un applauso la senatrice a vita, quelli del centrodestra sono rimasti seduti senza applaudire”…
    Leggo su un quotidiano… ma ancora di più inquietano le immagini di quei nostri rappresentanti, seduti, al margine destro, in una calma indifferente che sa di ostilità. E diventa insulto un gesto in sé innocuo come lo stare seduti e in silenzio…
    E ancora di più suonano come insulti le “innocenti” parole che sono seguite, sui perché e sui distinguo. E cos’è razzismo, e cos’è un’opinione, e quel “prima gli italiani”, ad esempio.
    I gesti e le parole… bisognerebbe maneggiare gli uni e le altre con più cautela.
    Che dire dei crocefissi usati (condivido l’espressione di Michela Murgia) facendo riferimento a “dei marcatori culturali” usati “come corpi contundenti”. A questo proposito propongo, per ridare a Cristo quel che è di Cristo, un’attenta e onesta rilettura dei Vangeli…
    Mentre per tornare ad un uso più accurato delle parole, suggerisco la lettura incrociata di due libri nei quali mi sono imbattuta qualche tempo fa, quanto mai attuali.
    Il primo libro: “Lessico del razzismo democratico. Le parole che escludono” (ed. Derive/approdi) di Giuseppe Faso, che è insegnante e, fra le varie cose, ha coordinato il centro Interculturale Empolese-Valdelsa, e molto ha partecipato a esperienze associative con lavoratori immigrati.
    Ce ne snocciola un po’, Faso, di parole tanto scontate da sembrare banali, persino, nell’ovvio incedere del nostro parlare quotidiano, ma che compongono il dizionario che pure rivela tanto nostro razzismo. E non stiamo parlando della volgarità del razzismo esplicito e cattivo. Ma di qualcosa di più profondo, sottile, più pericoloso perché tutti ci pervade. Stiamo parlando del razzismo “democratico”, raffinato, di noi persone educate, colte, intellettuali magari…
    Una parola scelta, non a caso, dal libro di Giuseppe Faso: “ospite”.
    Quanto distorta, svilita, infangata, negli ultimi tempi. E’ parola nata buona, accogliente come lo sono le porte spalancate. Sa di abbracci, rispetto e condivisione. Sa di antica cortesia e di buone usanze. L’ospite è sacro, ci hanno insegnato fin da piccoli, agli uomini e agli dei…
    Eppure… “Se ne consideri l’uso degradato”, ci dice Giuseppe Faso, che tanto per cominciare cita un ricorso della Procura di Firenze nei confronti di un cittadino straniero colpevole di non essersi presentato in Questura, dove era stato convocato, perché la convocazione non era tradotta nella sua lingua. Ecco: “Non si può piegare l’autorità del nostro Stato e la cultura millenaria che ci appartiene alle esigenze di immigrati stranieri in larga misura entrati in origine irregolarmente e che invece (…) devono sottostare, quali ospiti, alle regole e agli usi adottati e rispettati dal padrone di casa”.
    Ed ecco che una parola nata buona come il pane, “ospite”, carica della sacralità di gesti che hanno segnato la nostra civiltà, viene impiegata per negare il principio stesso dell’ospitalità.
    Quest’idea degradata dell’ospite rimbalza oggi un po’ dappertutto, e più che d’accoglienza ha il sapore della definizione di limiti e confini, se non del “respingimento” (parola orribile che fa ormai parte del nostro lessico). E non vi sto a dire dei proclami di certa politica molto in linea con il tono del testo del ricorso citato. Il diavolo, si sa, s’insinua nei dettagli. Pensate un po’, mi sono imbattuta nel dettaglio di una targhetta, di quelle che si appendono agli ingressi delle case, che accanto al profilo di un simpatico cagnolino recita: “Ricorda, quando vieni a casa mia, che il mio cane vive qui. Tu sei solo un ospite”. E viene anche da sorridere magari…
    L’elenco di parole degradate che Giuseppe Faso ha da tempo scovato è ben lungo: altro, apprendimento, sicurezza, badante, legge, cibo, ripulire, bivacco, decoro, dato di fatto….
    Le parole non sono innocenti, dipende dall’uso che se ne fa. Provate a pensarci voi, e se non riuscite a “vedere” il senso deviato di queste parole che pure tutti i giorni pronunciamo, andate a consultare il “Lessico del razzismo democratico” che, catalogando questi e altri termini, ci inchioda alle nostre responsabilità. Puntando il dito contro la pigrizia (e la malafede) di chi finge di spiegare realtà complesse con semplificazione di pensiero e di linguaggio, e ce ne spiega, di queste parole e semplificazioni, l’uso strumentale e demagogico. Così che alla fine per tutti, sotto sotto, chi migra è sempre un clandestino, chi è clandestino è un terrorista, una zingara è sempre una ladra… e le parole diventano proiettili che possono uccidere, come spiegava un’efficace campagna sociale di qualche anno fa.
    Il secondo libro: “Sulla lingua del tempo presente”, prezioso lavoro di Gustavo Zagrebelsky. Bella riflessione sui luoghi comuni linguistici la cui continua ripetizione è segno di una malattia degenerativa della vita pubblica, che si esprime in un linguaggio stereotipato e kitsch, proprio per questo largamente diffuso e accolto”.
    Una parola per tutte. “Italiani”. Dovrebbe parlare di unione e fratellanza, rimando a un inno alle cui note riusciamo persino a commuoverci (finanche se solo prima del fischio d’inizio di una tenzone su un campo di calcio!), rimando alla storia che l’Italia fece… eppure “è diventata parte di un lessico dell’ostilità”. Parola corrotta, dice Zagrebelsky, dal momento in cui un partito è stato definito dal suo capo “partito degli italiani” (partito è per definizione parte, gli italiani dovrebbero essere il tutto), e oggi siamo a quel “prima gli italiani” che sa di esclusione, respingimenti e morti, su frontiere d’acqua o di terra che siano…
    Italiani. Ospiti. Due parole che saldandosi insieme, nel loro degradato uso, chiudono il cerchio del nostro distorto orizzonte. Svuotate del loro senso e riempite di veleni, diventano tarli, che polverizzano l’anima della nostra civiltà. Bisognerebbe pensarci, prima di democraticamente commuoverci davanti alle tragedie che anche il nostro colto e composto razzismo contribuisce a produrre…

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