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    Perdersi a Pushkar

    pushkarPushkar. Ai margini del deserto del Rajasthan, dove l’aria è limpida e leggera. Lo chiamano il posto degli dei. In una piccola conca intorno ad una bolla d’acqua. Fra la montagna e il deserto. Secondo la leggenda qui si è fermato Brahma e non avrebbe potuto fare scelta migliore.
    Pushkar è luogo sacro agli Indù, meta di pellegrinaggi affollata di templi. Tutto riassunto in una cornice di case bianche e azzurre e tetti colorati che accompagnano i ghat scendere nell’acqua del laghetto e qui si specchiano in una irreale diafana corona. Pushkar è aria sottile, trasparente e dolce. E’ odore di incenso e canapa indiana, guglie e suoni di canti, ritmi di tamburi e preghiere, corone di fiori, sacerdoti, santoni, fedeli e qualcuno che da tempo qui si è perduto.
    Della folla di Pushkar fa parte un denso universo animale che come in ogni parte dell’India si mescola alla gente. Ma qui forse è ancora più presente che altrove, senza essere mai percepito ingombrante: animali occupano liberi la strada, seduti al centro dei crocevia, in attesa a ridosso dei forni, sotto le friggitorie, nell’androne dei palazzi. Animali che nessuno osa allontanare.
    Penso che saranno più felici dei nostri, se si muovono senza catene e indisturbati in ogni angolo del paese. Come le mucche sacre che ritrovi ovunque. Dagli occhi larghi buoni e lontani. Ma sono anche bestie magre. Che mangiano quel che trovano, che divorano rifiuti di carta unta, spazzatura, pagine di giornali. E’ la prima volta che vedo animali inghiottire carta. Ogni mucca ha tutt’intorno un piccolo corteo di maiali, che sgambetta fra le zampe. Maiali affamati che continuamente ne annusano e quindi mangiano gli escrementi. Maiali piccoli e sporchi coperti di dure setole nere, malati come mai visti. E’ la prima volta che vedo animali nutrirsi di merda.
    Animali. Fermo nel mezzo della strada principale, compare, tenuto alla corda da un contadino dal viso prosciugato, un piccolo mostro. Un vitello che un cattivo scherzo della natura ha fornito di una quinta zampa, un arto morto che spunta dalla schiena e che il padrone ha dipinto di verde, perché a nessuno sfugga, per la foto che ti offre di scattare per qualche rupia. Ma anche per questo piccolo mostro è più facile riservare un posto nell’archivio della mente che non nella memoria breve di una pellicola.
    E i cani e le cagne. Anche qui vivono tante cagne macilenti che nessuno nutre, dalle mammelle gonfie e pendenti e corpi di scheletro. Magre e sporche come i ragazzini scalzi e malvestiti che ti affiancano chiedendo a gesti, per favore, qualcosa da mangiare, e che continuano a portare la mano dallo stomaco alla bocca, dalla bocca allo stomaco e a indicare i negozi dove c’è chi vende biscotti o pane o dolci fritti, e ti seguono con paziente insistenza, anche per ore, senza abbandonarti finché non hanno avuto la loro piccola elemosina.
    Dai gradini più bassi di un ghat sale un canto che sembra nenia. Il ritmo è dondolante, sembra il racconto di una storia antica, una preghiera, un lamento senza lamento. Offerto in attesa di qualche offerta.
    E’ voce acuta di donna accompagnata dal suono di uno strumento, composto da un asse, delle linee e una corda, che l’uomo accanto a lei con una bacchetta fa vibrare come l’arco di un violino.
    Lui ha il bel viso maturo, gli occhi chiari, l’aspetto fiero degli uomini del Rajasthan. Sembra fissare un punto lontano. Lei canta senza interrompersi, ha lo sguardo attento, all’uomo al suo fianco, alla gente che è intorno, alla bambina che ha in braccio. La bambina, piccolissima, pochi mesi forse, è avvolta in una veste rossa, i capelli neri stretti in un ciuffo alto sulla fronte corrugata, il viso che è una smorfia e gli occhi come due carboni, larghissimi e grandissimi, che non guardano da nessuna parte. Vorrei non averli mai visti.
    Eppure qui tutto, anche l’insostenibile, sembra scorrere quieto al ritmo delle preghiere che si alternano nell’aria. E c’è qualcosa di tutto questo che comunque penetra nell’anima anche ghiacciata di un’occidentale. In qualche modo alleviandola.
    Forse è la novità dell’aria asciutta del deserto che, svuotandole dell’umido del peso, regala alle ossa leggerezza. La leggerezza di una canna vuota. Riaffiora dalla memoria delle letture d’infanzia una parabola dimenticata. Il racconto del dio che chiede di saper divenire canna, canna cava e umile perché, libera della materia, possa risuonare del suo soffio.
    Lo spirito ha bisogno di tempo, si nutre di riti liberi dall’ansia. Come il trascorrere l’intero pomeriggio in attesa del tramonto. Pushkar è qui a ricordarlo.
    All’estremità del paese c’è uno slargo affacciato sul lago dal quale si vede il sole tramontare dietro il confine sulla riva opposta. Ogni pomeriggio, quando la luce inizia ad assumere i toni più caldi del tramonto, vi si raduna una piccola folla. Sui gradini di un locale o assiepata nella cornice di due grandi alberi, per un saluto che è anche ringraziamento al sole, il cui lento calare viene accompagnato da un gioco di tamburi.
    Mentre il sole si abbassa sull’orizzonte, si rinnova il miracolo della luce che trasforma i colori dei tetti dei templi e delle case. C’è un momento in cui tutto, sulla riva del lago, sembra divenire oro, mentre i corpi degli spettatori in controluce si stagliano come nere comparse di un teatro delle ombre.
    Sul palcoscenico, di qua dal lago, compare un toro nero. Enorme, imponente. La sua sagoma attraversa sicura la scena. Lentamente, segue il suono dei tabla, per poi svanire oltre la folla.
    Ricomparirà più tardi il toro (lo stesso?) nel vano di un palazzo. Accovacciato esattamente al centro del passaggio, quasi a farvi da guardia. Volta la testa. Guarda severo. E’ una massa di muscoli potente. Animale primordiale. Per la prima volta capisco che è possibile non averne paura.
    Il canto di Pushkar non si interrompe mai. Ad ogni ora del giorno ad un coro ne segue un altro. Prima ancora che una preghiera termini, si leva il suono di un sitar, il canto di un questuante.
    Il canto di Pushkar non si acquieta neanche di notte. Melodie antiche, di risonanze primitive, rompono i brevi silenzi e salgono a tratti nel buio. Sembrano moltiplicarsi in eco sulle montagne, volare sul deserto e poi tornare. Nella notte ogni cosa sembra ancor più leggera, accompagnata ad una strana serenità, come appartenente ad una sconosciuta dimensione, sicuramente non a questo mondo. La domanda è se non sia questa l’anticamera per il paradiso.
    Una risposta arriva immediata, col controcanto di un triste latrato di cani.

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