Un che di inquieto nella piccola sala d’aspetto, anticamera allo studio del veterinario. Eppure sembra tutto come sempre. Cortesi signore con i loro cari animaletti nelle gabbiette, o in braccio come neonati avvolti negli stracci. Un ragazzo con un’iguana dagli occhi palpitanti. Una bimba con un coniglietto nero. Ciro il pappagallo dietro le sue sbarre, a guardare tutti un pò annoiato, un pò incusiosito. Lanciando a tratti urla. A squarciare momenti di silenzio. E disattenzione: Ciro si apetta che sempre qualcuno si trattenga con lui, a chiacchierare del più e del meno. Insomma tutto come sempre. Anche la curiostà del mio Pippo, gatto, che allunga il muso verso la gabbietta semi aperta di quel canuzzo nero, che un pò guaisce, un pò abbaia. E a un tratto infastidito gli soffia contro. Un soffio violento di gatto iroso. E in realtà vedo che il canuzzo si trasforma in un gattaccio. Troppo grosso per essere contenuto nella gabbia. E ancora si gonfia… buttando per aria il coperchio. Mentre diventa, lo giuro, una pantera, che si tende in un balzo verso il povero Pippo. Che scappa. Senza che io riesca a riacciuffarlo. E attraversa la strada. Ed è già scomparso nella foresta di palazzi di un quartiere che neppure conosco. E so neppure lui conosce. Ed è già irrimediabilmente perso. Ma devo cercarlo, anche se so che sarà inutile. E attraverso la strada, e mi perdo nella foresta di strade e palazzi fra i quali non mi oriento. E lo penso sperduto, e lo penso morto. Mentre mi muore il cuore. Mentre vedo avanzare verso di me e intorno a me, gatti. Che non sono lui. Gatti ben nutriti, tutti identici l’uno all’altro. Soriani annoiati, dallo sguardo spento, che senza guardarmi camminano meccanici. Con quei manti che ora vedo tutti perfettamente uguali, a righe nere e grigie. Nella foresta di palazzi. Che diventa prigione, nella quale pure mi sembra vivano la loro inerte vita con rassegnato agio. I sogni… ogni volta ci si chiede da dove nascano… ogni volta ci si risponde… guardandosi intorno…