Passando, all’inizio della settimana scorsa davanti a piazza san Pietro… anzi circumnavigandola, perché tra transenne, militari, controlli ecc… sono finiti i tempi in cui la piazza la si poteva attraversare liberamente in lungo e in largo. E in lungo e in largo randagiare godendo degli spazi del capolavoro di architettura e urbanistica barocca. Ma non è questo il punto. Circumnavigando dunque la piazza e vedendo il fiume di persone sotto il colonnato in fila per entrare, e pensando all’esposizione delle reliquie dei due santi, ospitate fino al giorno delle Ceneri nella basilica. San Pio da Pietralcina e San Leopoldo Mandic, esposte per la venerazione dei fedeli…
Di San Leopoldo Mandic leggo qualcosa in questi giorni. Della gestione di memoria e profitti che riguardano il buon Padre Pio, sempre ho avuto un certo raccapriccio. Di volta in volta, tra una riesumazione e l’altra, tra un’ostensione e l’altra, non riesco a cancellare l’impressione tetra di quel suo corpo, che corpo più non è, e, nelle sue mille riproduzioni, la tristezza del profilo addormentato di quel viso che non è più viso, ma maschera. Già. Questa, si sa, è in silicone, realizzata da un’azienda londinese, specializzata in questi lavori. Lessi che era la stessa che ha realizzato molti dei volti del museo delle cere di Londra…
Sotto la maschera, dunque, quasi più nulla. Del corpo vero, si sa, rimane ben poco. Reliquie, comunque, da venerare. Da vedere, soprattutto. La gente, qualcuno ha detto, ha bisogno di vedere. La fede si deve toccare. (…)
Mi è difficile allontanare un profondo turbamento, di fronte a questo bisogno di reliquie da “vedere e toccare”. Immagino desiderio, se fosse possibile, di appropriarsi, persino, di quel che resta di brandelli dell’uomo che fu. Per provare a incorporare, chissà, così, un pezzettino della sua santità, della sua forza, della sua fede… che da soli non ce la facciamo.
Reliquie…
Tempo fa, ricordate la questione?, si era parlato del desiderio dei polacchi di avere in patria il cuore di Wojtyla, che sognavano di seppellire nel castello dei re di Cracovia. Il cuore di Wojtyla in Polonia, per la gioia della sua gente. Il resto, nel caso, da lasciare pure nella sede dei papi. Di questa vicenda non ho trovato più tracce, ma da qualche parte ho letto di un’ampolla di sangue incastonata in un reliquario a forma di libro in bronzo argentato… sangue che sarebbe stato prelevato giusto giusto al momento della morte…
Certo, non sarebbe stata cosa del tutto nuova, questa di un cuore da custodire a Varsavia. Sapete, di Chopin e del suo cuore, custodito in Santa Croce a Varsavia, appunto, così lontano dalla tomba di Père Lachaise a Parigi, dove riposa il resto del corpo. Avevo allora pensato davvero spiacevole l’atto con il quale quel pezzo di muscolo era stato tolto al torace dell’uomo per il quale aveva battuto il tempo della vita. Anche se sembra sia stato un desiderio proprio di Chopin.
E randagiando randagiando, una volta infine l’ho visto un cuore conservato in un’urna. A Vienna. A dire il vero il cuore non l’ho visto affatto, sigillato dentro l’urna di pesante metallo. Ma la scritta alla base del contenitore spiegava che vi era conservato il cuore di un Asburgo. E mi è importato poco sapere che la pratica dell’espianto degli organi, come delle viscere, era cosa necessaria per il processo d’imbalsamazione. Non ho potuto che immaginarlo con molta tristezza. Quel cuore smarrito, lontano dal corpo al quale era appartenuto e insieme al quale avrebbe forse preferito dissolversi nella terra. Ora era lì dentro, condannato a una solitudine eterna e buia. Nudo del corpo. E lo sguardo, anche di qua dall’urna, si fa impudico.
Personalissime impressioni… ma c’è un che di sottesa, inconsapevole ferocia, mi è sempre sembrato, nell’idea di andare a frugare in un corpo, separarne gli organi. Distillarne liquidi. Distribuirne segmenti, tracce… Un po’ come spartirsi le spoglie. “Per guardarti meglio. Per toccarti meglio. Per mangiarti meglio…”, e meglio possederti, viene da pensare…
Anni fa, un “empio” film del regista inglese Peter Greenway ( empio e anche seducente autore, per chi ne ami la scrittura estrema) narrava una storia ambientata verso la metà del 1600. “The Baby of Macon”, la vicenda di un bambino al quale erano state attribuite prerogative divine. Insomma un bambinello che ebbe la sciagura di essere creduto ‘santo’. Di lui approfitta persino la sorella che fa credere di esserne madre, vergine, e che alla fine lo uccide. Atroce la condanna a morte della donna, insostenibile e pur difficile da dimenticare come un terribile incubo, così come insostenibile, e impossibile da dimenticare, la feroce scena finale, con il corpo del ‘santo’ bambino smembrato in reliquie. Per acquietare la sete di sacro dei fedeli.
Ci vuole un po’ di coraggio … ma andate a vederlo, quel film, se non lo conoscete. E’ lo svelamento, senza ipocrisie, dell’oscenità del nostro “pulito” guardare e toccare pezzi di corpo esibiti, comunque ‘confezionati’. Reliquie, appunto. Parola che ha un po’ il sapore del sangue, appena dolce, appena pauroso, come un leggero svenire…