Domenica scorsa, a teatro. Teatro della Visitazione, che già il nome è un bel programma, da andare a scovare in uno spazio nel piano terra della Chiesa della Visitazione, a Casal Bruciato, bordo di periferia romana… In programma: Tenerezza, un insolito stato di grazia. Che, tratto da un racconto di Carmelo Samonà, ‘Fratelli’, mette in scena la vita di due fratelli, appunto, rimasti soli nella grande casa avita. Uno dei due è autistico, l’altro lo assiste. Tutto si svolge dietro le finestre ben serrate di una casa dove non entra mai la luce.
Parabola dei recinti bui nei quali respingiamo le cose che non ci piacciono, ci mettono a disagio, e un po’ forse ci fanno anche paura. E nulla, credo, ci fa paura come i disturbi della mente.
Eppure, eppure… sono talmente tante le persone che hanno a che fare col disagio mentale che dobbiamo proprio essere tutti ciechi e sordi per considerarle questioni marginali, per pensare che possano restare confinate dietro mura, pubbliche o private che siano. Se il venti per cento della popolazione ha a che fare con un disturbo mentale, lieve o grave che sia, e quelli gravi sono ben l’otto per cento… A farci riflettere su questo, alla fine della rappresentazione, fra gli altri, Giovanni Valeri, che è neuropsichiatra al Bambino Gesù, con un invito anche a guardarci intorno. Perché, ve ne siete mai accorti?, c’è un caso di autismo ogni 100 bambini e l’incidenza del disturbo dello sviluppo dell’organizzazione cerebrale è in costante aumento. Questo significa che ogni quattro classi c’è un bambino autistico. La loro vita è spesso tutto un difendersi da questi noi altri normotipici ( che siamo noi che autistici non siamo). La loro vita e quella della loro famiglia. Sempre che rimanga in piedi, una famiglia…
Malattie da cui non si guarisce, ma è possibile non perdersi, e costruire percorsi di miglioramento, se intorno al bambino c’è una famiglia e intorno alla famiglia una comunità, ha spiegato Valeri, richiamando il proverbio africano “per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”.
Mi ha fatto ricordare, questa storia del villaggio, di un’estate a Riace (sì, sul mare di Calabria dei celebri bronzi). Un incontro per una piccola festa nella sala del Comune. A un tratto si affaccia un piccolo uomo, un po’ sdrucito, mattarello avresti subito detto… ridacchiava soltanto. Tutti lo hanno salutato con affetto, lui si è fermato a mangiare qualcosa, una pacca sulla spalla di qua, un saluto di là, ed è stato tutto il tempo con noi. “Abita in strada, lo teniamo d’occhio un po’ tutti, a turno lo accudiamo”, ha spiegato qualcuno. “Non fa male a nessuno… sembra vivere sereno. E’ il nostro mattarello del villaggio…”
Già, più villaggi, più luoghi collettivi, e meno finestre spente… servirebbero. Eppure intorno alla malattia mentale più spesso si chiudono le mura di case troppo simili al palcoscenico dello spettacolo messo in scena domenica. Dove la vita, dietro finestre serrate, scivola fra rituali, che sono i binari che al malato sembrano dare certezze: la colazione, la defecazione, le brevi passeggiate, rotte da qualche fuga, i silenzi, i litigi, le fantasie, a volte le uniche realtà possibili. E brani di un’intelligenza ‘altra’ che, con una naturalezza alla quale non sembriamo più abituati, svela le nostre ambiguità…
Dove sembra che il fratello “sano” sia alla fine completamente assorbito nel mondo del “matto”, non può che entrare nel gioco di lui… come chi nella vita reale con questo si confronta ogni giorno vi può ben raccontare.
Che a invitarmi a vedere lo spettacolo è stata Gabriella La Rovere, che è medico, ma, dice sempre ‘forse l’unico medico italiano con un solo paziente’: sua figlia, Benedetta, che soffre di una malattia rara ed è affetta da autismo. Tutta la sua vita con Benedetta, Gabriella va sempre in giro a raccontarla, come l’ha raccontata anche in un bel libro ( L’orologio di Benedetta), a partire dal miracolo che con lei bambina si era compiuto, attraverso la lettura. Perché la lettura, racconta, può risvegliare emozioni anche in chi ha seri ritardi mentali… Il suo racconto è trapuntato di quei piccoli straordinari miracoli che pure arrivano, improvvisi, a illuminare un percorso che è una battaglia continua, enorme, giorno dopo giorno, per costruire ponti… una battaglia che chi ha un figlio affetto da autismo ben conosce, come conosce i muri alzati tutt’intorno da chi non ha abbastanza immaginazione per cercare di capire… E fra parentesi vi consiglio il suo libro, che strazia e fa sorridere, mentre ci racconta, sfogliando le pagine di questo rapporto a due, soprattutto una grande storia d’amore.
Tornando allo spettacolo di domenica. Tenerezza, dunque, è il titolo scelto dal regista, Lauro Versari. Vero. Quanta tenerezza… nei frammenti di un discorso che, fra toni affettuosi, ora aspri, ora disperati, ora accoglienti, ora non innocenti, sempre rimane discorso amoroso, Che è quello che alla fine, a noi tutti, tiene in vita.
Permettetemi un ‘bravissimi!’ agli attori, Gaetano Aronica e Ivan Giambirtone, che sembrano proprio vivere su di loro tutto il dramma e tutta la tenerezza di quel rapporto. Messo in scena in un teatro di periferia. Anche questo, forse, non è un caso… se la malattia, e la malattia mentale più di ogni altra, respingiamo nelle periferie delle nostre coscienze. Sempre che un angolino riusciamo a riservarvi, nelle nostre coscienze.