Ricevo e molto volentieri pubblico, questa profonda riflessione sul MIllelire “L’assassino dei Sogni”. Di Bonaventura Perrone, che è docente del Liceo Classico di Santa Maria C.V. (Caserta) e , soprattutto è mio cugino e del suo attento pensiero ringrazio molto.
“Ho letto le pagine che costituiscono l’estratto di questo carteggio con molta attenzione e coinvolgimento emotivo. Quando avverti la palingenesi vissuta da un uomo come Carmelo molti pensieri ti si affastellano nella mente. Il primo, per quanto banale e scontato, è quello di ascendenza manzoniana, incarnato dalla figura dell’Innominato (“Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia”). Ma prorompe incontrollata anche la forza icastica dei versi baudelairiani di Spleen: il cielo che pesa come un coperchio sull’anima gemente, la terra trasformata in una cella umida dove “se ne va su pei muri la Speranza sbattendo la sua timida ala…”; la pioggia con le sue strisce infinite, assimilate alle sbarre di una vasta prigione; il popolo silente di infami ragni che prende possesso dei nostri cervelli; e per finire, il parossistico, apocalittico epilogo con la Speranza che piange e l’atroce Angoscia che pianta da despota sul cranio il suo vessillo nero! Come non associare tali immagini alla condizione degli “uomini-ombra” annientati dall’ “assassino dei sogni”, a chi sconta l’ergastolo ostativo nella consapevolezza di essere un “dead man walking”, (…)non perché in attesa della pena capitale (che, paradossalmente, finisce per essere vista come liberatoria), ma perché, privo di un futuro, destinato a farsi ruggine tra ruggine, carcere nel carcere, deturpandosi fisicamente e spiritualmente, senza intravedere la luce di un riscatto che si traduca in una riparazione al danno commesso.
Alcuni mesi fa, quando ho dato come compito in una classe terminale il tema della condizione dei detenuti nelle carceri italiane, un’alunna (anche brava), mi ha scritto in modo semplicistico e banale che chi vi è recluso gode gratuitamente di vitto e alloggio e magari, dopo poco tempo, ne esce costituendo un pericolo costante per la società.
I luoghi comuni, il modo in cui i media veicolano le informazioni, lo scarso interesse dei giovani ad approfondire tematiche serie (che non siano gossip, calcio, moda, culto dei “must” ecc.), originato, ahimè, anche dalle scarse sollecitazioni di noi “maestri”, producono questi danni!
Allora vengono in mente anche le parole e l’operato di Don Milani: “Perché è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’ espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli.”
Don Lorenzo, anticipando i tempi odierni, rimarcava l’imprescindibilità dell’istruzione, l’inesorabile discriminazione tra Pierino del dottore e Gianni (il figlio del proletario)…….., la necessità di farsi portavoce di quell’ “I care”, senza il quale non può esservi crescita, maturazione di sé. Stigmatizzava, altresì, anche l’operato di una scuola che si ostinava a complicare il processo di acculturazione, soprattutto a scapito dei non borghesi, ostinandosi a chiamare lo stretto di Gibilterra “Colonne d’Ercole”. Conseguentemente e provocatoriamente, proponeva alla famosa professoressa di leggere e commentare con gli studenti il contratto dei metalmeccanici!
Sembra che mi stia allontanando dalla tematica in oggetto, ma non è così.
Don Lorenzo teneva a precisare che la scuola deve annullare il discrimine che si instaura tra il figlio del ricco e il figlio del povero, deve operare come un ospedale, che ovviamente deve accogliere i malati, non i sani!
Da questo discorso emergono, infatti, due rilevanti implicazioni: i danni prodotti dall’indigenza e quindi dall’ignoranza (che porta, il più delle volte, ad optare per la scelta della devianza, per l’affiliazione a chi incarna l’antistato, promette un guadagno facile e garantisce una presenza continua, facendo passare i diritti per favori…); la necessità di garantire a chi ha sbagliato la possibilità di redimersi, di riscattare se stesso, risarcendo la società offesa. E quale migliore grimaldello se non la cultura, rivelatasi “condicio sine qua non” anche nel caso di Carmelo!
Le pagine da lui vergate rivelano come egli abbia sudato nel promuovere questa sua seconda vita, “smettendo i panni sporchi di fango e indossando panni curiali”. Come Machiavelli riacquistava la sua dignità di uomo, durante l’esilio dell’Albergaccio, a San Casciano, dialogando idealmente con i suoi diletti auctores, per “cibarsi di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui”, così Carmelo (“si parva licet componere magnis”) ha trovato la forza di affrancarsi dall’assassino dei sogni e rompere idealmente le catene dell’ignoranza, esortando la sua anima ad una catarsi (non importa se in chiave laica o spirituale).
Questo è il fine che deve proporsi il regime carcerario, senza svilire il valore supremo della legge con il deprecabile ricatto di chi è disposto a denunciare il proprio simile (magari innocente) pur di salvare se stesso.
La descrizione della non vita fatta da Carmelo e dai suoi compagni lascia basiti: il timore di guardarsi allo specchio o in una foto (senza più riconoscersi), la condizione inadeguata di chi ha demandato ad altri il ruolo di padre, marito, compagno; l’assurda presenza di un calendario che può scandire il tempo per chi è fuori, ma non per chi ha impressa nella mente una data tragicamente grottesca, da film di fantascienza: 99/999/9999 (!)
Eppure gli uomini ombra, dei quali ho apprezzato (forse per deformazione professionale) non solo la volontà di reagire, di non vedersi morire, ma anche la vis poetica, esemplata in metafore ed analogie davvero pregnanti, hanno bisogno di un appiglio, di qualcuno che apra loro un minimo varco per respirare.
Alcuni di loro lo hanno trovato nel Prof. Ferraro, il quale, indossando i panni del maestro, dello psicologo, del confessore ha costituito quel filo rosso che si allunga tra il confine della vita e quello della non vita; anche se, paradossalmente, come il Prof. giustamente ha affermato, richiamando le parole dell’Apologia di Socrate, non si sa chi vada effettivamente a vivere e chi a morire; se gli ergastolani, che sono in grado di compiere una svolta di 360 gradi, nel silenzio assordante di una cella, o noi, figli di un bellum omnium contra omnes, prigionieri di una enorme pupazzata, in cui ognuno recita per benino la sua parte, almeno fino a che non arriva il fatidico “strappo nel cielo di carta”, che annichilisce le certezze. L’uomo ombra, ecco, mi richiama alla mente proprio quel forestiere della vita di Pirandello che “ha capito il gioco” e può assumere verso di esso un atteggiamento distaccato e straniato.
E’ facile, dunque, trincerarsi nelle solite monolitiche risposte, proposte come antidoto ad una realtà in cui la violenza e la legge del più forte hanno preso il sopravvento, in cui si avverte un deprecabile discrimine tra paese reale e paese legale, in cui si guarda passivamente al reboante fragore degli effetti, senza voler minimamente analizzare le cause.
“Marciscano in cella… buttino la chiave…ma che vengono a fare qui? Ad accrescere i nostri problemi?…”
Queste sono le espressioni formulari destinate a chi commette reati gravi, ai mafiosi, ai pluriomicidi, ai pedofili, agli extracomunitari senza considerare la genesi, l’humus in cui il reo è nato o si è formato, le tare ereditarie e le disfunzioni psichiche e senza dismettere i panni farisaici di chi non vuole comprendere la gravità delle guerre civili e/o di ascendenza (pseudo)religiosa e non ha ancora realizzato (o voluto realizzare) che viviamo in una società multiculturale e multirazziale.
Ma, per non mettere troppa carne sul fuoco e rientrare nei ranghi, mi limiterò a puntualizzazioni in merito al problema della criminalità organizzata, della mafia, della camorra.
Ho insegnato alcuni anni a Casal di Principe, in un istituto magistrale e posso dire che li richiamo alla mente in modo chiaroscurale, agrodolce: con piacere, per il legame proficuo che ho instaurato con le allieve (alcune delle quali hanno lasciato la terra d’origine); ma anche con amarezza, perché, durante la mia permanenza in questa cittadina, ho potuto comprendere che tipo di mentalità alligna, si tramanda, si consolida se si afferma la convinzione che lo Stato è assente o, addirittura, è nemico, mentre il suo “delegato” garantisce servizi, diritti ecc.
Due sono stati i momenti in cui mi sono chiesto il senso del mio operare: in occasione dell’omicidio di Don Diana e di quello del padre di una mia collega. Al di là degli eventi in sé drammatici, quello che mi ha colpito è stato proprio l’atteggiamento delle alunne: lo sconcerto (non ricordo se in occasione del primo o del secondo episodio) delle discenti è durato solo trenta, sessanta minuti al massimo; dopo di che il corso della giornata si è profilato lungo il binario della normale routine. Questo è quello che mi ha sconvolto: l’assuefazione alla morte! Concepire non tanto e non solo l’illegalità, ma addirittura la morte come qualcosa di banalmente rituale!
Qual è il senso di questa digressione: evidenziare come in certe realtà della Campania e del Sud in generale si nasce e si cresce abituandosi alla devianza; ed è veramente difficile, se non impossibile, non diventare gramigna, verso la quale lo stato non si attiva affrontando il problema alle radici, in termini di prevenzione, ma si limita (quando non si scade nella collusione politica-camorra) ad estirpare, illudendosi di aver debellato l’epidemia con l’arresto sensazionale (!) di latitanti storici (che, magari stazionavano tranquillamente in loco da anni). Ad onor del vero vi sono anche da segnalare casi di crisalidi che fortunatamente si trasformano in farfalle; ma viene da rodersi le dita quando si nota che tra le migliori della classe c’è proprio la figlia di un boss, la quale sembra avere su di sé il peccato originale, che la Nemesi le ha impresso dopo averla brutalmente resa orfana, a seguito dell’omicidio del padre (riconducibile al classico regolamento di conti).
I tanti “Musumeci” che popolano le nostre carceri sono figli di queste realtà degradate, di questo modus vivendi, sacche di devianza e illegalità che fanno comodo anche a chi si aggira nella “stanza dei bottoni”.
Encomiabile, ma tragicamente e tristemente vano, rischia di essere il tentativo dei preti-coraggio che operano per amore del loro popolo. Quella che bisogna scardinare è la cultura dell’illegalità, interagendo con i giovani, facendo loro capire che se hanno sbagliato i padri non è detto che debbano fare lo stesso anche i figli.
Ecco perché, quando ho letto degli uomini ombra, mi sono venuti in mente gli uomini libro di Bradbury, in Fahrenheit 451, i quali, in una società postmoderna, ove i libri sono bruciati e la cultura bandita perché gli individui devono essere intellettualmente castrati, privati della facoltà di pensare e quindi di contestare, si propongono di diventare depositari dello scibile umano mandando a memoria, e quindi conservandoli nello scrigno della loro mente, i classici del pensiero dell’umanità.
Ma veniamo al punctum dolens di tutto il discorso: il senso, la finalità e la commisurazione della pena.
E’ fin troppo palese la stridente contraddizione tra la finalità propria della detenzione, una finalità rieducativa e orientata verso un reinserimento in quel consesso sociale che il reo ha offeso, e il comminare un ergastolo ostativo, che rappresenta, di fatto, una morte spirituale a tutti gli effetti. Esattamente come la pena capitale che denuncia la sua disumanità oltre che i suoi limiti, in quanto le statistiche dimostrano che nei paesi in cui è in vigore mostra di non avere affatto effetti deterrenti nei confronti di coloro che scelgono di delinquere.
Però, a mio avviso, la questione è più complessa, nel senso che, per eventi così gravemente delittuosi, sia più che opportuno interpellare i parenti delle vittime, che sono stati privati tanto drammaticamente dei propri cari. Magari la risposta a caldo non potrà che essere univoca; ma il pentimento, la riabilitazione, il proposito di risarcire in qualche modo chi ha patito tale strazio vanno comunque contemplati. Insomma, per chi (ora scrive e) non vive in prima persona il dramma è facile apparire buonisti, mostrarsi proclivi al perdono e invocare una giustizia giusta, tanto per i familiari delle vittime quanto per i rei. Ma una sorta di diritto di prelazione credo debba spettare appunto a chi ha visto la sua vita sconvolta da un evento assolutamente inatteso.
Quando vedi quella che fu la Campania felix ridotta miseramente a “terra dei fuochi” (con la connivenza di industriali del nord e di politici), quando vedi aumentare in modo esponenziale i casi di tumore che seminano morte, anche e soprattutto tra i giovanissimi, resti a dir poco inorridito: il tuo cuore grida vendetta!
Tuttavia è anche vero che, quando si tocca il fondo, non si può fare altro che iniziare la risalita. Per dirla con Goja, “Il sonno della ragione genera mostri”, tanto tra i cattivi che tra i sedicenti buoni. Occorre necessariamente abbandonare la propensione alla feritas, credere ad un ravvedimento perché la logica della legge del taglione non paga (ed esempi eloquenti vengono dai conflitti, come quello eterno tra arabi e israeliani).
In tal senso le parole di Agnese Moro, (figlia dell’illustre statista democristiano), apparse sulla Famiglia cristiana del 15/02/2014, sembrano essere decisamente emblematiche.
Bonaventura Perrone