Pubblico il bell‘intervento dell’avvocato Monica Murru, in risposta a un ben discutibile articolo apparso due giorni fa, sulle pagine de La nuova Sardegna, a proposito della vicenda di Mario Trudu. Non riporto l’articolo a cui si dà risposta. E’ facile immaginarne toni e contenuto dalle parole di Monica Murru. Da leggere.
“Sono l’avvocato di Mario Trudu più o meno dal 2015, da quando ha fatto ritorno in Sardegna dopo un quarto di secolo e io, che di anni ne sto per compiere 50, resto ancora frastornata quando penso che il mio assistito è in carcere da quando la sottoscritta frequentava la quarta elementare (1979). Un tempo immenso, una vita intera, una serie interminabile di giorni tutti uguali nell’espiazione di ciò che Papa Francesco ha definito la pena di morte viva.
Per rendermi conto di che cosa significa quest’arco di tempo, provo a ripensare a tutta la vita che ho vissuto in questi ultimi quarant’anni, alle scelte fatte, i percorsi intrapresi e poi modificati e subito dopo penso agli anni di Mario, tutti cristallizzati in un eterno presente, ancorato al passato e privo di futuro. Mi guardo le mani, le piccole rughe ai lati degli occhi, gli inevitabili segni del tempo che passa; guardo i miei figli, i ragazzi loro coetanei e ho piena consapevolezza di non essere la stessa persona che ero 40, 30, 20 ma neanche 2 anni fa. Già, perché l’essere umano cambia, evolve, cresce ogni giorno; a volte piegato, umiliato, sconfitto altre volte tenacemente esaltato da una vita che ti impedisce di restare per sempre uguale a te stesso.
E se è così per me, per tutti, perché per Mario dovrebbe essere diverso?
Come egli stesso scrive anche lui appartiene al genere umano, ed allora perché contrariamente agli altri dovrebbe restare pervicacemente bloccato in un eterno fermo immagine che lo rappresenta come uno spietato sequestratore, o un bandito rozzo e feroce?
E’ vero, non si è mai pentito – se con questo si vuol fare riferimento al fatto che non ha mai voluto collaborare con la giustizia – ma nel corso di questi lunghissimi anni ha manifestato segnali di vera e concreta resipiscenza, aspra e laconica un po’ come il suo carattere, arrivando a dire che non aveva mai ritenuto opportuno chiedere perdono alle sue vittime per rispetto nei loro confronti, perché consapevole di aver arrecato loro troppo dolore tanto da non volergliene causare dell’altro semplicemente “costringendoli” ad ascoltare il suo nome e/o le sue parole.
Ma allora perché non gli dovrebbe essere consentito di far sentire la sua voce, perché non dovrebbe recriminare contro uno “Stato orbo” che da 40 anni lo tiene sepolto vivo, incurante del suo percorso trattamentale, della sua età, del suo stato di salute, sempre più pregiudicato e precario?
Qualcuno i giorni scorsi ha risposto, precisando che non dovrebbe perché sta giustamente scontando la pena che gli è stata comminata; lo stesso qualcuno che ha pomposamente affermato che la certezza della pena non è vendetta e che ciascuno di noi è il vero artefice del proprio destino, tanto che, in quanto tale, deve ingioiare fino in fondo l’amaro boccone delle proprie scelte, anche quando quel boccone prevede di non uscire mai dalle mura di un carcere.
Senza entrare in discorsi troppo tecnici con riferimento alla mostruosità dell’ergastolo ostativo – che mi riservo per altre sedi – devo dire la verità: ho trasecolato nel leggere l’articolo in cui Vanessa Roggeri riporta lapidarie considerazioni in merito nonché l’aneddoto del pastore ucciso a colpi di pietra per essersi ribellato ai ladri di uomini; aneddoto raccontato evidentemente per dimostrare che c’è sempre una via d’uscita, una scelta alternativa che ci consente di collocarci dalle parte dei “giusti”.
Ma davvero Sig.ra Roggeri lei è convinta che ognuno di noi abbia nella vita le stesse opportunità, le stesse chances e financo le stesse inclinazioni per potersi sedere dalla parte dei “giusti”? Davvero crede che tutto dipenda da noi stessi e che non esista alcun fattore antropologico, biologico o familiare in grado di condizionare la nostra vita? Davvero crede che se Mario Trudu fosse nato e cresciuto a Trento, a Ferrara, a Frosinone per dirne qualcuna, in una famiglia di insegnanti, di impiegati, di operai, e non ad Arzana, in quel preciso periodo storico ed in quel contesto agropastorale, avrebbe avuto il destino che ha avuto e che lo ha visto sepolto per sempre in un reclusorio?
Personalmente sono convinta del contrario e le neuroscienze mi sostengono in questo mio ragionamento; anzi sono proprio sicura che nascere in un contesto piuttosto che in un altro, in un’epoca storica piuttosto che in un’altra, in una famiglia piuttosto che in un’altra, faccia la differenza.
Con questo non intendo certo giustificare chi si macchia di condotte criminose, chi sceglie il crimine consapevolmente e volutamente ma, attenzione a quando parliamo di certezza della pena come sinonimo di intransigenza, di rigore, di fermezza.
Ogni giurista sa, o dovrebbe sapere, che la certezza della pena non vuol dire pena immodificabile ed inflessibile – concetto questo che non esiste né in dottrina né in giurisprudenza – posto che, è la stessa Corte Costituzionale che ha stabilito fin dal 1974 che la pena è ontologicamente flessibile, proprio in virtù di quanto recita il dettato della nostra Costituzione, come recentemente ha spiegato molto meglio di me, Francesco Maisto, per anni Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna e attualmente fresco di nomina come Garante dei diritti per i detenuti per il Comune di Milano.
Ma si sa, ultimamente va di moda il giustizialismo che difficilmente trova fra i suoi seguaci i conoscitori e gli amanti del diritto! è molto più cool dimostrarsi irreprensibili e parlare di buttare via le chiavi, marcire in galera e via discorrendo. A proposito di marcire, mi piace citare qui, le parole di un autorevole magistrato nonché autore di uno straordinario libro “Fine pena ora” di Elvio Fassone, il quale nello spiegare, ad addetti ai lavori e non, l’inutilità e la disumanità di una pena priva di speranza, scrive testualmente: Se è vero che anche la pena può dare frutto, ebbene se il frutto è davvero maturo, è tempo di coglierlo altrimenti marcisce.
Ed è questo che deve essere spiegato all’uomo della strada, ai ragazzi, ai giovani adulti, alla massa indistinta degli indifferenti, a chi pensa di essere sempre dalla parte del giusto, perché rispettino la natura dell’uomo e non si facciano irretire da chi ha come unica soluzione il metus, l’esemplarità della pena.
Fortunato il paese che non ha bisogno di eroi diceva Brecht e di vendicatori aggiungo io, perché, senza nulla togliere alle vittime o ai parenti delle vittime dei reati, verso i quali sento la più profonda solidarietà ed empatia, ed a tutela dei quali mi rendo conto che non si faccia ancora abbastanza, non riesco a non guardare, con altrettanto dolore, agli autori dei reati, soprattutto se hanno scontato e stanno scontando lunghe pene a cui deve essere garantito il diritto, una volta pagato il debito, di tornare alla società.
Sono uomini che non smettono di essere tali, a cui non può essere tolta la speranza e con essa l’umanità, perché un uomo senza speranza è già morto come dimostra il fatto che in passato, nella vicina Francia, si era preferito abolire l’ergastolo piuttosto che la pena di morte, ritenendo il primo una pena ben più severa.
Forse, come Camus, anch’io non ho inclinazione per l’eroismo e per la santità, ma resto convinta che ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare e che forse non si può giungere che a delle approssimazioni della santità, in tal caso bisognerebbe accontentarsi di un satanismo modesto e caritatevole.
Monica Murru